Sinodo giovani – Riunione presinodale
Gli interessati debbono compilare e inviare – sollecitamente- i moduli allegati, esclusivamente a: umec.wuct@gmail.com
Moduli: 2018 Sinodo giovani – Riunione presinodale
Entro breve tempo saranno informate le persone che saranno selezionate in base alle caratteristiche richieste.
In base alla caratteristica dei lavori previsti, non sono previste partecipazioni limitate a qualche giornata.
PIU’ SCUOLA FUORI DALLE SCUOLE
Più scuola … fuori dalle scuole
…e se invece di portare la vita dentro le scuole, portassimo gli studenti a contatto con le vite di fuori?
di Italo Bassotto
Non separare scuola e vita vissuta
Il problema di fondo dell’educazione scolastica è di non allontanare troppo dalla vita reale le conoscenze che vengono proposte agli studenti, al punto da far percepire a questi ultimi la sostanziale “inutilità” della esperienza culturale che i curricoli ordinari degli istituti propongono loro. La stretta correlazione tra vita e conoscenze culturali non è solo un fatto che serve a motivare gli studenti (più i saperi sono “concreti”, più interessano ai bambini ed ai giovani che li devono apprendere. E’ nella natura stessa della conoscenza la sua capacità di dare spiegazioni plausibili ai fenomeni che avvengono in natura, nelle relazioni tra gli uomini ed in quelle tra le istituzioni: perciò studiare significa accostarsi alla verità della vita con gli strumenti culturali che l’umanità, nei secoli della sua evoluzione, ha creato per vincere la paura dell’ignoto e dominare le forze della natura, sia quella fisica che quella propria della interiorità umana.
La scuola non insegna la vita, ma le sue “rappresentazioni”
Eppure, se ci pensate un attimo, la prima cosa che fanno gli insegnanti quando iniziano a spiegare qualcosa della realtà del mondo è di allontanarsi da essa, per perdersi nell’analisi dei modi con cui gli uomini portatori di diverse forme di conoscenza hanno elaborato i loro pensieri e le loro ricerche. Così gli studenti non sono coinvolti nella interpretazione culturale del mondo e dei suoi fenomeni, bensì nello sforzo di decrittare (decifrare e capire) quello che dice una determinata materia di studio delle cose di cui si occupa. Il fatto è che le “cose” di cui si occupano le discipline di studio (matematica, biologia, storia, italiano…) non sono (a scuola) le cose della vita, ma dei concetti astratti e formali che sono stati raccolti in manuali sintetici, dove vengono organizzati, secondo una sistematicità non coerente con quella degli alunni, ma dei redattori, i contributi degli studi di autori importanti per quel determinato campo del sapere
APPRENDERE PER SERVIRE, SERVIRE PER APPRENDERE
IMPARIAMO PER MEGLIO SERVIRE – LA PEDAGOGIA DEL SERVICE LEARNING
“Fare del bene fa bene!” C’è una stretta interconnessione tra l’apprendimento e il servizio alla comunità. L’apprendere genera e sostiene la capacità di rendersi utili a se stessi e agli altri e il servizio svolto genera apprendimento. Queste le idee portanti del Convegno internazionale promosso dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica e dalla LUMSA, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, nella prestigiosa sede della Pontificia Accademia delle Scienze in Vaticano. Nell’occasione è stata espressa viva gratitudine al cardinale Grocholewski che proprio in quel giorno concludeva il suo servizio di Prefetto della Congregazione e ha voluto salutare tutti i partecipanti.
Il Convegno ha favorito la conoscenza della proposta pedagogica del Service Learning, un approccio che orienta gli studenti verso il servizio alla comunità, ed è stato anche occasione per presentare la Scuola di Alta Formazione “Educare all’incontro e alla solidarietà”, promossa dalla LUMSA e dalla Congregazione EC, diretta dal professor Italo Fiorin. L’intensa giornata di lavoro ha promosso un ampio dibattito sulle problematiche connesse al Service Learning grazie alla partecipazione di esperti provenienti da varie parti del mondo (chiesa, università, scuole, associazioni professionali, enti .).
I frequenti interventi del Santo Padre, in questi primi anni di pontificato, sono stati ripresi più volte nel corso dei lavori. Infatti, papa Francesco ama ripetere che “il mondo si può cambiare solo se cambia l’educazione” e che “per educare c’è bisogno del villaggio e non dei serragli”. Ed ancora il costante invito a fare della propria vita un dono e organizzare “nuove forme di educazione a seconda delle varie situazioni e realtà”.
Il documento conciliare “Gravissimum Educationis”, ha evidenziato il Segretario della Congregazione, Mons. Zani, nel saluto introduttivo, già mezzo secolo fa dichiarava che “l’educazione favorisce l’apertura dell’uomo al mondo”.
Il Service Learning promuove la cultura del dono e del servizio e, pertanto, una dinamica interazione tra scuola e mondo del volontariato, con un reciproco arricchimento e sostegno, condividendo il valore della gratuità e della solidarietà. Esso è connesso agli apprendimenti curriculari, che, grazie alla dimensione pratica del servizio, possono essere appresi in profondità, adeguatamente padroneggiati e ampiamente sviluppati.
Infatti, in quest’ottica, l’apprendimento disciplinare crea impegno sociale, promuove motivazione, gratificazione, competenza, responsabilità ed è quindi motore di cittadinanza attiva.
Il fare dell’apprendimento un servizio e del servizio un apprendimento non è solo un programma di iniziative ad hoc. E’ pedagogia, metodologia ed anche filosofia: è uno specifico modo di essere scuola, scuola vivace, accogliente e competente, aperta al territorio e al mondo; scuola del pensare e dell’agire, del prendere consapevolezza e dell’agire; spazio significativo di vita in cui si apprende attivamente impegnandosi nella soluzione di problemi reali. Non è una periodica ed estemporanea iniziativa auto gratificante, ma stile quotidiano che caratterizza la realtà scolastica.
Il Service Learning, pur non rientrando nell’ambito delle didattiche speciali, è un approccio pedagogico efficace anche per la realizzazione di percorsi inclusivi. Infatti, scardinando approcci di tipo esclusivamente assistenziale, rende gli alunni con bisogni educativi speciali soggetti attivi di un processo di aiuto verso gli altri, implementando la cultura della solidarietà e dell’accoglienza, nonché della “competenza attiva”.
Esso è caratterizzato dall’apprendimento cooperativo, dall’inclusione, dalla riflessività, dal riconoscimento e valorizzazione dei talenti personali, dalla cooperazione extrascolastica, da una progettualità che esalta la dimensione del volontariato e del bene comune.
Il servizio favorisce il protagonismo dei giovani, ma anche una feconda interazione tra docenti e discenti, tra generazioni e competenze diverse, superando rigidità di fare e di essere provocate dal chiuso delle istituzioni e delle aule scolastiche.
E’ necessario, però, ha opportunamente precisato il professor Berlinguer, valorizzare pienamente l’autonomia scolastica, superare la scuola chiusa, frammentata nell’organizzazione e negli apprendimenti, rigida negli orari. Occorre cambiare l’impianto educativo complessivo per dare al tempo scuola flessibilità ed unitarietà. Occorre valorizzare le risorse interne ed esterne alla scuola, avere competenza e coraggio; riconoscere e legittimare l’esperienza del volontariato.
Varie sono le esperienze di service learning nel mondo, a tal punto che alcuni Ministeri dell’Istruzione (Argentina, Cile, Uruguay, Olanda, Spagna, Svizzera …) hanno adottato dei programmi specifici.
La Scuola di Alta Formazione della LUMSA sta per avviare specifiche iniziative di formazione e di confronto per sostenere le istituzioni scolastiche interessate a sviluppare progetti di Service Learning.
Giovanni Perrone
ANCORA TAGLI ALLA SCUOLA
Ancora una volta, tagli pesanti alle risorse di personale si riversano sulla scuola. L’Associazione Italiana Maestri Cattolici (AIMC) chiede di dare avvio a un serio e puntuale monitoraggio di ciò che sta accadendo.
Leggi il comunicato AIMC: Tagli alla scuola 12 mag 2011
L’ENAM, perchè farla fuori?
Manovra del Governo: un emendamento cancella l’Ente di solidarietà dei maestri
Comunicato della Presidenza Nazionale AIMC
Con l’approvazione della Commissione Bilancio del Senato, nella seduta pomeridiana del 24 giugno, dell’emendamento presentato dalla senatrice Germontani sembra avviarsi a concretizzazione la fine della storia dell’ENAM.
Per i più, e certamente per coloro che non da ora ne auspicano la chiusura, è soltanto una sigla, anzi un Ente “inutile”. Per i docenti e i dirigenti della scuola dell’infanzia e primaria, l’Ente Nazionale Assistenza Magistrale rappresenta invece l’incarnazione della solidarietà della categoria verso coloro che si trovano in situazioni di difficoltà e bisogno.
Si tratta di un Ente creato e sostenuto dagli stessi assistiti con la quota, obbligatoria, detratta mensilmente dal proprio stipendio. Un’istituzione, quindi, che non rappresenta in alcun modo una fonte di spesa per lo Stato e che appartiene, eticamente, alla categoria magistrale che ne ha costituito, dalla sua fondazione nel 1947 ad oggi, il solido patrimonio immobiliare e mobiliare.
Non sembra corretto, quindi, nei confronti dei circa 300.000 docenti e dirigenti scolastici contribuenti e dei quasi 1.300.000 assistiti (dati dell’Ente), cassare con poche righe in una legge una realtà significativa e ancora attuale, considerando che, non più tardi dello scorso 22 febbraio, il Consiglio di Stato ne riconosceva il ruolo nel sistema sociale nel “[…] sostenere e supportare fasce di cittadini che potrebbero essere non sufficientemente sorrette dal sistema pubblico”.
L’Associazione Italiana Maestri Cattolici, che tanto contribuì alla nascita dell’ENAM, riafferma l’inderogabile etica necessità di coinvolgere democraticamente tutta la categoria magistrale in qualsiasi decisione sul futuro dell’Ente, patrimonio dei docenti e dei dirigenti.
Si auspica, quindi, che le esigenze di cassa ancora una volta non gravino, direttamente o indirettamente, sui professionisti della scuola italiana.
Roma, 25 giugno 2010
La presidenza nazionale Ai
La scuola ha bisogno di nuovi Socrate
Un insegnante può cambiare la vita di uno allievo…..Insegnare è una professione ma non è soltanto questo: è una vocazione. Oggi invece la visione burocratica vince sull’educazione.
Arne Duncan, responsabile dell’educazione negli Usa, lancia l’allarme: «Manca oggi una classe di docenti motivati e di talento»
di Arne Duncan*
Nel campo dell’istruzione l’America deve affrontare tre grandi sfide che impongono un miglioramento dei programmi di formazione didattica più che mai urgente. Primo, l’istruzione che milioni di americani hanno ricevuto in passato non è più al passo con i tempi. In un’economia globale competitiva, persino chi possiede un diploma delle superiori, se non si iscrive all’università, si ritrova con una gamma limitata di possibilità.
Secondo, oggi più che mai dobbiamo riconoscere la necessità – e il dovere per una scuola pubblica – che tutti gli studenti possano trarre dall’insegnamento tutto il potenziale possibile. Allo stato delle cose, tuttavia, ci troviamo ben lungi dall’avere conseguito l’agognato obiettivo di pari opportunità educative.
Attualmente quasi il 30% dei nostri studenti abbandona la scuola o non riesce a terminare gli studi superiori nei tempi previsti. A malapena il 60% degli studenti afro-americani e ispanici riesce a diplomarsi entro i regolari anni di corso. Se abbiamo a cuore il desiderio di offrire possibilità, di ridurre le disuguaglianze, di promuovere la coscienza civica e la partecipazione, è l’aula scolastica il punto da cui partire.
La terza sfida è l’esodo di massa dal corpo insegnanti da parte delle persone nate negli anni del baby boom previsto per il prossimo decennio.
Attualmente contiamo 3,2 milioni di insegnanti che lavorano in circa 95.000 scuole. Nei prossimi quattro anni potremmo perdere un terzo dei nostri insegnanti e funzionari scolastici più esperti, causa pensionamento e logoramento. La nostra capacità di attrarre, ma, ancor di più, di trattenere i grandi talenti nei prossimi anni lascerà un’impronta profonda sull’istruzione pubblica. È davvero un’opportunità che capita una sola volta nell’arco di una generazione. Per mantenere competitiva l’America, e per trasformare in realtà il sogno americano di un’uguale istruzione garantita a tutti, è nostro dovere reclutare, retribuire, formare, ascoltare e rispettare una nuova generazione di insegnanti di talento. Per ottenere questo è tuttavia essenziale elevare lo standard dei programmi di formazione didattica poiché agli insegnanti di oggi, rispetto anche a soli dieci anni fa, chiediamo molto di più.
Il presidente Obama si è infatti posto l’ambizioso obiettivo di far riguadagnare all’America, entro il 2020, il primato della nazione che vanta, in proporzione, il più alto numero di laureati al mondo. Per raggiungere tale obiettivo, tuttavia, sia il nostro sistema scolastico sia i programmi di formazione didattica devono migliorare sensibilmente.
La posta in gioco è immensa e il tempo di aggrapparsi al passato è finito. C’è una ragione per cui molti di noi ricordano per sempre il proprio insegnante preferito. Un grande insegnante può letteralmente cambiare il corso della vita di uno studente. Gli insegnanti accendono una curiosità che dura tutta la vita, destano il desiderio di partecipare alla democrazia e instillano la sete di conoscenza. Non sorprende che tutti gli studi affermino ripetutamente come sia la qualità dell’insegnante responsabile della classe il fattore decisivo per la crescita scolastica di uno studente, e non le condizioni socioeconomiche o l’ambiente familiare.
Reclutare e addestrare questo esercito di nuovi, grandi insegnanti dipende fortemente dalle nostre facoltà di Scienze dell’educazione. Esse avranno il compito di formare più della metà dei nostri futuri docenti.
Le facoltà umanistiche e scientifiche rivestono un ruolo assolutamente essenziale nel consolidare il bagaglio culturale di un futuro insegnante. Fatico a capire i rettori e i presidi delle facoltà umanistiche e scientifiche che trascurano i programmi di Scienze dell’educazione delle loro università. Il fatto è che Stati, distretti, e governo federale sono ugualmente responsabili della costante debolezza dei programmi di formazione didattica delle facoltà di Scienze dell’educazione. Gran parte degli Stati membri approvano d’ufficio i programmi delle facoltà che, solitamente, si basano su criteri di valutazione degli studenti affidati a test scritti senza una reale valutazione della loro effettiva preparazione all’insegnamento in una classe. Pochissimi Stati e pochissimi distretti monitorano attentamente il lavoro degli insegnanti, valutando se e quali programmi di formazione didattica hanno creato docenti ben preparati e quali invece insegnanti dal rendimento scarso. Dovremmo, da un lato, studiare e riprodurre le pratiche rivelatesi efficaci e, dall’altro, esortare gli insegnanti meno efficienti a rivedere il proprio modo di lavorare o a rinunciare a questa professione.
S’è detto spesso che i grandi insegnanti sono eroi di cui non sono cantate le gesta, ma a parer mio questa evidente verità ha un significato profondo. L’insegnamento è una delle poche professioni che non è solo un lavoro o addirittura un’avventura estemporanea: è una vocazione. I grandi insegnanti si sforzano di aiutare ogni studente a sbloccare il proprio potenziale e a sviluppare l’atteggiamento mentale che gli servirà per tutta la vita. Essi lavorano nella convinzione che tutti gli studenti abbiano un dono, anche quando dubitano di se stessi. Le sfide che il nostro sistema scolastico ed educativo deve affrontare sono enormi. Ma altrettanto immensa è l’opportunità di servire al meglio i nostri figli e il bene comune.
* Segretario di Stato all’Educazione degli Stati Uniti
Da Avvenire, 2 giugno 2010, pag. 27
Per saperne di più: Il prossimo numero «Atlantide», quadrimestrale della Fondazione per la Sussidiarietà diretto da Giorgio Vittadini, si occupa della scuola e dell’università costretta a confrontarsi con la crisi economica e il conseguente problema degli investimenti in ricerca e formazione. Non tutti i Paesi stanno agendo nello stesso modo. Agli interrogativi rispondono tra gli altri: Nikolaus Lobkowicz, John Wood, Rafael Sánchez Saus,Vladimir Vorob’ev, Giuseppe della Torre, Carlo Pelanda e il ministro Usa Arne Duncan.
La formazione iniziale dei docenti
Il 20 maggio 2010 il Presidente dell’AIMC ha presentato alla VII Commissione Cultura della Camera dei Deputati le sguenti osservazioni relativamente alla schema di regolamento n. 205 riguardante la formazione iniziale degli insegnanti:
Leggi documento: 20 maggio 2010 Audizione Comm Cultura Camera
RICOEUR: il filosofo del perdono
Ricoeur: il filosofo del perdono
A 5 anni dalla morte, il punto sull’eredità dell’allievo di Husserl e Mounier, teorico di riferimento di Rahner e Congar al Concilio Il discepolo Jervolino: ha usato i «maestri del sospetto» per togliere la maschera a troppe nostre sicurezze Padre Cucci: ma per lui l’essere personale si poteva cogliere solo nella «logica della sovrabbondanza», ovvero attraverso l’economia del dono.
DI FILIPPO RIZZI
Era un venerdì, il 20 maggio di cinque anni fa, quando nelle prime ore del mattino si spegneva nella sua abitazione di Châtenay Malabry, presso Parigi, nel complesso edilizio Les Murs Blancs che Emmanuel Mounier aveva fatto costruire per i più stretti collaboratori della rivista Esprit, il filosofo Paul Ricoeur (1913-2005), l’erede spirituale di Edmond Husserl e dell’esistenzialismo cristiano. Stelle polari della sua formazione furono, non a caso, Emmanuel Mounier, Gabriel Marcel e Karl Jaspers. Ricoeur fu, tra l’altro, il filosofo di riferimento per la rivista Concilium
nei primi anni della sua nascita, soprattutto per teologi di rango come Karl Rahner, Yves Marie Congar e Edward Schillebeeckx. Allevato dai nonni nella fede protestante, Ricoeur era nato nel 1913 a Valence ed era stato fatto prigioniero dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Vicino al socialismo cristiano di André Philip, aveva insegnato in varie università: dalla Sorbona a Lovanio e negli Stati Uniti a Yale e Chicago. Oppositore di ogni forma di totalitarismo, memorabili rimangono le sue denunce contro le atrocità perpetuate nelle guerre di Algeria degli anni Cinquanta e di Bosnia nel 1992. Ora, a 5 anni dalla scomparsa, rimangono soprattutto vivi i suoi insegnamenti di filosofo e di uomo di dialogo a cominciare dai suoi saggi più famosi, solo per citarne alcuni, come Finitudine e colpa o Il conflitto delle interpretazioni. Di questo ne è convinto uno dei suoi più affezionati discepoli, Domenico Jervolino, oggi docente di ermeneutica e filosofia del linguaggio all’università Federico II di Napoli: «Quello che mi ha sempre affascinato del suo pensiero è stata la ricerca attorno al tema del soggetto, della soggettività da ricomprendere e reinterpretare nel suo rapporto con l’alterità. Forse la sua grandezza maggiore è stata, a mio avviso, quella di credere che la filosofia non deve mai bastare a se stessa ma deve trarre linfa anche dalle tradizioni ricevute, dalle scienze dell’uomo e dal nostro inconscio e proprio da tutto ciò che è altro dalla filosofia». Un lascito, quello di Ricoeur, da riscoprire soprattutto per come ha introdotto la ricerca filosofica nel difficile terreno della psicoanalisi, soprattutto quella di stampo freudiano: «Ricoeur trova in Freud l’interlocutore privilegiato, che pone in questione una coscienza troppo sicura di sé e mette in gioco anche le cosiddette ‘pulsioni inconsce’. Non a caso, assieme a Freud, considera Nietzsche e Marx i cosiddetti ‘maestri del sospetto’ perché capaci di scoprire che sotto il soggetto c’è qualcosa d’altro, una maschera dove il soggetto risulta essere un ‘testo tutto da decifrare’ ». Dal canto suo un altro discepolo, il professore emerito di storia della Filosofia all’università di Roma Armando Rigobello, oltre a collocare Ricoeur come «continuatore ideale del personalismo comunitario di Mounier, in un certo senso» anche per il comune «pudore della testimonianza », mette in evidenza la sua attenzione alla trascendenza nonché l’affinità al magistero cattolico e alla Bibbia: «Ricoeur si è abbeverato ai testi sacri di cui si fa interprete. Fondamentale in lui l’esegesi della Parola.
Costante è nei suoi scritti il confronto con la trascendenza, la ricerca filosofica e l’esperienza religiosa. Ricoeur è soprattutto preoccupato di difendere i suoi scritti dall’accusa di costruire una cripto-teologia, anche se riconosce che le motivazioni profonde dei temi da lui trattati nascono dalle convinzioni religiose ». In ultima analisi – è la conclusione di Rigobello – «la sua filosofia è aperta alla trascendenza, anche se non la fonda». Ma per capire nel profondo il pensiero e l’ermeneutica biblica ricoeuriana bisogna affrontare un argomento nodale della sua ricerca: il perdono. Proprio su questo tema si è soffermato, con un ampio articolo su La Civiltà Cattolica, nel settembre scorso, il gesuita e filosofo della Gregoriana Giovanni Cucci: «Il perdono dice qualcosa dell’essere stesso. Per Ricoeur lo si può cogliere soltanto in un’economia del dono, frutto di quella che chiama ‘logica della sovrabbondanza’. Il perdono ne è il versante supremo, esso manifesta il riferimento non solo a una colpa commessa, ma anche alla dignità del suo autore, nella fiducia che egli potrà fare di più e meglio di quanto compiuto, potrà essere diverso da se stesso. Come dice Ricoeur con una formula suggestiva: «Tu vali molto più delle tue azioni’ ». Un «auditore della Parola », un «pensatore responsabile» un «filosofo sulla scia del magistero di Giovanni Paolo II»: sono tante le definizioni ma anche i ricordi che tornano alla mente del cardinale Paul Poupard, presidente emerito del Pontificio consiglio per la Cultura. La sua amicizia con Ricoeur è incominciata a Parigi negli anni Settanta, durante i molti seminari sull’ecumenismo all’ Institut Catholique, e poi è continuata a Castelgandolfo nei tanti convegni estivi con Giovanni Paolo II assieme a Hans Georg Gadamer ed Emmanuel Lévinas fino all’ultimo incontro, nel luglio 2003, con la consegna al filosofo di Valence del prestigioso Premio Paolo VI, in Vaticano, da parte di papa Wojtyla; che mise in evidenza la forte affinità di ricerca di Ricoeur con l’enciclica Fides et Ratio.
«Con quel riconoscimento – rivela il cardinale – si è voluto onorare il filosofo, amante dei testi sacri, attento alle tendenze più significative della cultura contemporanea ma anche un uomo di fede impegnato nella difesa dei valori umani e cristiani». Di quella giornata Poupard ricorda un particolare: «Dietro indicazione di Ricoeur l’importo del premio è stato devoluto alla Fondazione John Bost, di area evangelica, che dal 1848 si occupa di handicappati, anziani e di altri soggetti in difficoltà, circa un migliaio di persone. In quel gesto è emerso il Ricoeur meno conosciuto, il suo grande stile cristiano dove si manifesta evangelicamente la frase: ‘Coloro che tutti respingono, io li accoglierò nel nome del mio Maestro’. Tutto questo dimostra che era non solo un accademico puro, un idealista ma anche un uomo pratico e attento al prossimo. Per me è stato il massimo filosofo del nostro tempo e un uomo di grandissima umanità e umiltà ». La mente del professore Jervolino corre all’ultimo incontro a Parigi, un mese prima della morte, con il suo antico maestro: «È stato lucido fino alla fine. Mi chiedeva sempre della politica italiana. Ricordo che era un divoratore di giornali, in particolare Le Monde.
Seguiva le vicende della vita perché voleva rimanere vivo fino all’ultimo, mantenersi attivo fino alla fine, contro la passività e tutte le forme di degrado. In fondo ha esaudito così la sua aspirazione, quella di mantenersi ‘vivo fino alla morte’. Un’espressione che ha dato il titolo alla sua ultima opera, pubblicata dopo la sua scomparsa».
in Avvenire, 20 mag 2010 pag. 32
Un alfabeto della speranza per il Paese
Un alfabeto della speranza per il Paese
Il documento preparatorio della 46.ma Settimana Sociale dei Cattolici Italiani ha la forma di una vera e propria Agenda in 12 domande. Proviamo a esaminarle in filigrana con un ipotetico indice dall’A alla Zeta.
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