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RICOEUR: il filosofo del perdono

Ricoeur: il filosofo del perdono

A 5 anni dalla morte, il punto sull’eredità dell’allievo di Husserl e Mounier, teorico di riferimento di Rahner e Congar al Concilio Il discepolo Jervolino: ha usato i «maestri del sospetto» per togliere la maschera a troppe nostre sicurezze Padre Cucci: ma per lui l’essere personale si poteva cogliere solo nella «logica della sovrabbondanza», ovvero attraverso l’economia del dono.

DI FILIPPO RIZZI

Era un venerdì, il 20 maggio di cinque anni fa, quando nelle prime ore del mattino si spegneva nella sua abitazione di Châtenay Malabry, presso Pari­gi, nel complesso edilizio Les Murs Blancs che Emmanuel Mou­nier aveva fatto costruire per i più stretti collaboratori della rivista E­sprit, il filosofo Paul Ricoeur (1913-2005), l’erede spirituale di Edmond Husserl e dell’esisten­zialismo cristiano. Stelle polari della sua formazione furono, non a caso, Emmanuel Mounier, Ga­briel Marcel e Karl Jaspers. Ri­coeur fu, tra l’altro, il filosofo di riferimento per la rivista Conci­lium

nei primi anni della sua na­scita, soprattutto per teologi di rango come Karl Rahner, Yves Marie Congar e Edward Schille­beeckx. Allevato dai nonni nella fede protestante, Ricoeur era nato nel 1913 a Valence ed era stato fatto prigioniero dai tedeschi du­rante la seconda guerra mondia­le. Vicino al socialismo cristiano di André Philip, aveva insegnato in varie università: dalla Sorbona a Lovanio e negli Stati Uniti a Yale e Chicago. Oppositore di ogni for­ma di totalitarismo, memorabili rimangono le sue denunce contro le atrocità perpetuate nelle guerre di Algeria degli anni Cinquanta e di Bosnia nel 1992. Ora, a 5 anni dalla scomparsa, rimangono so­prattutto vivi i suoi insegnamenti di filosofo e di uomo di dialogo a cominciare dai suoi saggi più fa­mosi, solo per citarne alcuni, co­me Finitudine e colpa o Il conflit­to delle interpretazioni. Di questo ne è convinto uno dei suoi più af­fezionati discepoli, Domenico Jervolino, oggi docente di erme­neutica e filosofia del linguaggio all’università Federico II di Napo­li: «Quello che mi ha sempre affa­scinato del suo pensiero è stata la ricerca attorno al tema del sog­getto, della soggettività da ricom­prendere e reinterpretare nel suo rapporto con l’alterità. Forse la sua grandezza maggiore è stata, a mio avviso, quella di credere che la filosofia non deve mai bastare a se stessa ma deve trarre linfa an­che dalle tradizioni ricevute, dalle scienze dell’uomo e dal nostro in­conscio e proprio da tutto ciò che è altro dalla filosofia». Un lascito, quello di Ricoeur, da riscoprire soprattutto per come ha introdot­to la ricerca filosofica nel difficile terreno della psicoanalisi, soprat­tutto quella di stampo freudiano: «Ricoeur trova in Freud l’interlo­cutore privilegiato, che pone in questione una coscienza troppo sicura di sé e mette in gioco an­che le cosiddette ‘pulsioni incon­sce’. Non a caso, assieme a Freud, considera Nietzsche e Marx i co­siddetti ‘maestri del sospetto’ perché capaci di scoprire che sot­to il soggetto c’è qualcosa d’altro, una maschera dove il soggetto ri­sulta essere un ‘testo tutto da de­cifrare’ ». Dal canto suo un altro discepolo, il professore emerito di storia della Filosofia all’università di Roma Armando Rigobello, ol­tre a collocare Ricoeur come «continuatore ideale del persona­lismo comunitario di Mounier, in un certo senso» anche per il co­mune «pudore della testimonian­za », mette in evidenza la sua at­tenzione alla trascendenza non­ché l’affinità al magistero cattoli­co e alla Bibbia: «Ricoeur si è ab­beverato ai testi sacri di cui si fa interprete. Fondamentale in lui l’esegesi della Parola.

Costante è nei suoi scritti il confronto con la trascendenza, la ri­cerca filosofica e l’e­sperienza religiosa. Ri­coeur è soprattutto preoccupato di difen­dere i suoi scritti dal­l’accusa di costruire u­na cripto-teologia, an­che se riconosce che le motivazioni profonde dei temi da lui trattati nascono dalle convinzioni religio­se ». In ultima analisi – è la con­clusione di Rigobello – «la sua fi­losofia è aperta alla trascendenza, anche se non la fonda». Ma per capire nel profondo il pensiero e l’ermeneutica biblica ricoeuriana bisogna affrontare un argomento nodale della sua ricerca: il perdo­no. Proprio su questo tema si è soffermato, con un ampio artico­lo su La Civiltà Cattolica, nel set­tembre  scorso, il gesuita e filosofo della Gregoriana Giovanni Cucci: «Il perdono dice qualcosa dell’es­sere stesso. Per Ricoeur lo si può cogliere soltanto in un’economia del dono, frutto di quella che chiama ‘logica della sovrabbon­danza’. Il perdono ne è il versan­te supremo, esso manifesta il rife­rimento non solo a una colpa commessa, ma anche alla dignità del suo autore, nella fiducia che egli potrà fare di più e meglio di quanto compiuto, potrà essere di­verso da se stesso. Come dice Ri­coeur con una formula suggesti­va: «Tu vali molto più delle tue a­zioni’ ». Un «auditore della Paro­la », un «pensatore responsabile» un «filosofo sulla scia del magi­stero di Giovanni Paolo II»: sono tante le definizioni ma anche i ri­cordi che tornano alla mente del cardinale Paul Poupard, presi­dente emerito del Pontificio con­siglio per la Cultura. La sua amici­zia con Ricoeur è incominciata a Parigi negli anni Settanta, duran­te i molti seminari sull’ecumeni­smo all’ Institut Catholique, e poi è continuata a Castelgandolfo nei tanti convegni estivi con Giovan­ni Paolo II assieme a Hans Georg Gadamer ed Emmanuel Lévinas fino all’ultimo incontro, nel luglio 2003, con la consegna al filosofo di Valence del prestigioso Premio Paolo VI, in Vaticano, da parte di papa Wojtyla; che mise in eviden­za la forte affinità di ricerca di Ri­coeur con l’enciclica Fides et Ra­tio.

«Con quel riconoscimento – rivela il cardinale – si è voluto o­norare il filosofo, amante dei testi sacri, attento alle tendenze più si­gnificative della cultura contem­poranea ma anche un uomo di fede impegnato nella difesa dei valori umani e cristiani». Di quel­la giornata Poupard ricorda un particolare: «Dietro indicazione di Ricoeur l’importo del premio è stato devoluto alla Fondazione John Bost, di area evangelica, che dal 1848 si occupa di handicap­pati, anziani e di altri soggetti in difficoltà, circa un migliaio di per­sone. In quel gesto è emerso il Ri­coeur meno conosciuto, il suo grande stile cristiano dove si ma­nifesta evangelicamente la frase: ‘Coloro che tutti respingono, io li accoglierò nel nome del mio Maestro’. Tutto questo dimostra che era non solo un accademico puro, un idealista ma anche un uomo pratico e attento al prossimo. Per me è stato il massimo filo­sofo del nostro tempo e un uomo di grandis­sima umanità e u­miltà ». La mente del professore Jervolino corre all’ultimo incon­tro a Parigi, un mese prima della morte, con il suo antico maestro: «È stato lucido fino al­la fine. Mi chiedeva sempre della politica i­taliana. Ricordo che e­ra un divoratore di giornali, in particolare Le Monde.

Seguiva le vicende della vita per­ché voleva rimanere vivo fino all’ultimo, mantenersi attivo fino alla fine, contro la passività e tut­te le forme di degrado. In fondo ha esaudito così la sua aspirazio­ne, quella di mantenersi ‘vivo fi­no alla morte’. Un’espressione che ha dato il titolo alla sua ulti­ma opera, pubblicata dopo la sua scomparsa».

in Avvenire, 20 mag 2010 pag. 32

20 Maggio 2010 - Posted by | Educazione, Senza categoria

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